I mercati internazionali, le aziende italiane, la guerra intervista a stefano gulinelli, agente di acquisto (marketing independent contractor) di Aldo Viapiana

Chiariamo intanto qual è la sua attività Faccio da tramite fra chi ha una specifica esigenza di fornitura e ha difficoltà a selezionare il fornitore idoneo, con chi può soddisfare tale domanda. Mi occupo prevalentemente di materiali per l’edilizia, finiture d’interni e arredo, in ambito residenziale e terziario. I miei interlocutori sul fronte della domanda sono, all’estero, progettisti, general contractor, a volte gli stessi developer, direttamente o attraverso società di trading. Sul fronte della produzione, in Italia e all’occorrenza in Europa, ho a che fare con aziende, di dimensioni piccole, medie o in qualche caso grandi, in grado di fornire i materiali richiesti alle condizioni indicate dal richiedente, che siano porte e infissi piuttosto che ceramiche o sanitari, o soluzioni tecnologiche per le costruzioni, in una gamma enorme di prodotti, tutti quelli che hanno a che fare appunto con le costruzioni e l’arredo. In quali mercati? Potenzialmente il mondo, ma l’attività si concentra sull’area Medio Oriente/Paesi del Golfo, il Caucaso, l’Africa sub-sahariana, tutti Paesi in cui la presenza tradizionale di aziende italiane di quei settori è piuttosto scarsa, ma dove la richiesta del prodotto italiano di qualità può essere importante.

Poi capita di lavorare per commesse qualificanti anche in altri Paesi o in Italia, ma in misura nettamente minore. Ognuno di questi Paesi ha caratteristiche diverse dall’altro, anche se magari geograficamente vicini. I progettisti possono essere locali, raramente, o più frequentemente internazionali, e per lo più europei, ma ciò non significa che non si debba tener conto anche delle differenze culturali da Paese a Paese, sia nel modo di condurre la trattativa sia nei tempi e nei modi di realizzazione delle opere in progetto. Questi fattori sono spesso trascurati dalle aziende italiane con scarsa esperienza. Qualche esempio di realizzazione? Nuovi quartieri di edilizia residenziale, grandi alberghi o strutture turistiche, talvolta infrastrutture, ma capita anche che vengano richieste competenze e forniture più ampie, come ad esempio mi è capitato qualche anno fa quando la richiesta di un general contractor era di ripristinare la funzionalità di una risaia di 500 ettari, costruita negli anni ’60 dalla cooperazione italiana (in parte è ancora operativa, dopo 60 anni, anche questo è Italia) e oggi in stato di abbandono, compresa la fase di start-up da parte di tecnici e management. Succede talvolta che un referente estero, una volta acquisita stima e fiducia nel risultato della mia attività, mi chieda anche interventi al di fuori del mio ambito di specializzazione. In questi casi tendo a declinare tali richieste o a segnalarle a qualche collega competente nell’ambito specifico. Il mondo dei materiali da costruzione è già abbastanza complicato. In passato quando sono uscito dal mio ambito è capitato che mettessi a rischio la credibilità anche nel mio specifico. E quindi quali aziende italiane coinvolge? Premetto che la mia attività si svolge all’interno del segmento alto del mercato, dove il fattore critico di successo è sì il prezzo, ma strettamente connesso alla qualità e al servizio. Per fare un esempio, è accaduto che mi si chiedesse di selezionare un fornitore di arredo in grado di realizzare pezzi unici in serie, cioè un numero importante di pezzi totalmente diversi fra loro. Oppure la realizzazione di arredi, sempre in serie ridotte, su disegno dell’architetto, con contenuti tecnologici significativi. Ecco, per segmento alto intendo questo genere di interventi. In Italia abbiamo un tessuto di artigiani e piccole/medie imprese di produzione, degni della ribalta internazionale, ma che, per diversi motivi, non hanno mai spiccato il volo se non in maniera occasionale. Queste sono le aziende che preferisco e privilegio. Fra queste ho trovato grandi capacità tecniche, grande competenza, flessibilità, capacità di lavorare per rispondere alle esigenze del cliente. Li chiamo “outsider” proprio perché sono fuori dal circuito dei brand blasonati, pur avendo una sensibilità verso le esigenze di personalizzazione del cliente, non di rado maggiore. A volte rimango stupito della loro determinazione a mettersi in gioco con commesse anche importanti, magari con prodotti impegnativi per la loro tecnologia ed esperienza, lontani da quelli che normalmente propongono al mercato interno o a quelli di abituale presenza. Negli anni ho provato a definire il comun denominatore delle aziende con cui collaboro, un poco per impostazione culturale ma anche per darmi un metodo nella selezione di nuovi partner. Ebbene trovo che questo fattore risieda nel senso dell’organizzazione. I miei outsider hanno dimensioni che non consentono loro di inserire figure manageriali, se non part time o come consulenti. Eppure hanno dimostrano un robusto impianto organizzativo, ruoli chiari al proprio interno. Sono convinto che apparente paradosso derivi da un certo imprinting imprenditoriale per cui i titolari hanno un senso della delega tutto particolare. Non c’è il ruolo ma la funzione. Cosa intendo dire? In molte delle realtà con cui ho a che fare, non c’è il Responsabile della Produzione, c’è un tecnico o un operaio che “de facto” svolge la funzione di Responsabile delle Produzione. Questa persona conosce perfettamente il processo produttivo, gli impianti, le criticità, le strozzature ed è in grado di stabilire la fattibilità e i costi di un prodotto entro 24 ore. Da questo imprinting derivano una serie di conseguenze che sono la sostanza della mia attività. Disponibilità a seguire le specifiche e le indicazioni relative a quel mercato e quel cliente, avere la capacità di produrre, la capacità finanziaria per poterlo fare. Questo tratto distintivo non è comune. Ad un primo approccio tutte le aziende ti dicono di si, che sono flessibili, che adattano alle richieste del cliente, e così via. Ma la flessibilità che viene richiesta è prima di tutto mentale, non produttiva. E’ vero che la capacità di co-progettazione è spesso fondamentale, anzi è uno dei punti di forza dell’impresa italiana, ma sono molti altri gli aspetti che ti fanno stare o meno sui mercati internazionali. Intanto capire esattamente ciò che vuole il cliente, spesso le imprese italiane pensano di fare il miglior prodotto del mondo (e qualche volta è pure vero), ma magari il cliente ti sta chiedendo qualcosa in meno o diverso, quindi il peccato di presunzione è assolutamente da evitare. Poi per il cliente è importante rispettare budget, tempi e quantità di consegna.

Stiamo parlando di cantieri di grandi dimensioni, dove la fornitura deve arrivare dopo una certa fase ma assolutamente prima di qualcos’altro. Anche differenze di pochi giorni sono fondamentali in termini di costi. E questo talvolta è un punto debole delle imprese italiane, che spesso dipendono a loro volta da fornitori che non rispettano i tempi. Fin qui la parte più impegnativa specifica della mia attività. Poi succede che i miei referenti si trovino ad operare in contesti diversi, sul segmento medio/basso o basso, magari in paesi dove i costi di costruzione devono essere necessariamente molto contenuti. Succede così mi chiedano di individuare un fornitore per 140.000 mq di pavimenti e rivestimenti in ceramica a prezzi “sub-sahariani”. Ma questa è un’altra storia. Ma non si salva tutto con il “made in Italy”? Nei mercati che conosco meglio e nei quali normalmente opero il marchio Italia ha una sua forza di immagine, lo stile di vita e il gusto italiani sono ammirati. Nell’alto di gamma la cura del dettaglio, la capacità di innovazione, il mantenimento dell’artigianalità anche nel prodotto seriale è ciò che ci permette di proporci o comunque di competere, anche se siamo all’inizio sconosciuti, con altri operatori magari più consolidati in tali mercati. Ma attenzione, mentre tutto questo consente anche una certa tranquillità sulla componente prezzo, deve però esserci da parte delle nostre imprese la capacità di rispondere con una offerta di livello adeguato alle esigenze dei clienti, che talvolta sono anche piuttosto complesse. Non parlo solo di prodotto o di coprogettazione, ma di un approccio professionale e manageriale in tutto il ciclo della commessa. Per molte aziende è una bella opportunità di crescita non solo economica, ma anche in questo ambito. Ad esempio, le aziende spagnole alcune volte sono molto più vivaci e dinamiche di noi. Anche sul prezzo, ma non solo. Per aggiudicarsi una commessa quanto conta il prezzo? Se la caratteristica della commessa è quella di avere grandi volumi rischiamo spesso di perdere, specialmente con competitori internazionali (Cina, Sud Est asiatico, Spagna, Turchia) che evidentemente riescono a comprimere i costi. I nostri punti di forza sono la messa a punto del prodotto e il livello del servizio, compreso anche il rispetto dei volumi e dei tempi, oltre che le consuete caratteristiche proprie delle imprese italiane, tra cui la personalizzazione. Su

questo aspetto occorre chiarirci, spesso le aziende esagerano nel personalizzare il prodotto, dedicano tempo e risorse che poi rischiano di non essere riconosciute dal cliente. La sfida è riuscire a fare, quando serve o è richiesto, ogni pezzo diverso dall’altro, ma con una logica industriale, che ti permetta anche i volumi, di qualità, in tempi standard. E’ quello che chiamiamo “lotto uno”, che ad esempio nel settore della ceramica sta diventando la nuova frontiera dell’innovazione. Quindi il fattore critico di successo è la flessibilità? Si, ma non con un vecchio approccio. La flessibilità significa soprattutto capire come evolvono i clienti e quali innovazioni devo adottare anche sul piano progettuale e della produzione. Ad esempio, mi risulta che in certe aree turistiche le strutture ricettive si riconvertano all’offerta di miniappartamenti, è proprio un cambio di visione, che comporta in quel caso una ridefinizione radicale del modello di business. Molte aziende invece hanno purtroppo un vecchio marketing, abituato a ragionare per schemi consolidati, il depliant, la pubblicità, la fiera, da poco la presenza nella Rete, ma che rischiano di essere superati. Anche se la guerra ha messo in crisi la globalizzazione i mercati sono comunque in evoluzione, e non possiamo pensare di rimanere ancorati al passato. Di più, essere flessibili, rispondere alle esigenze del committente, non significa prendere un prodotto della propria gamma tradizionale, e pasticciarlo fino ad arrivare a qualcosa che rientri nell’abito dei vincoli posti dal committente stesso. Un esercizio di togli-metti, metti-togli, che ha come risultato un prodotto che concettualmente risponde ma praticamente resta un pasticcio. Significa bensì avere una competenza di engineering e manufacturing che consente di sviluppare una articolazione del prodotto base velocemente e a costi contenuti. E la guerra come influisce sui mercati? Prima la pandemia e ora la guerra, in maniera diversa, hanno cambiato radicalmente il mondo. Non solo, queste turbative si sono innestate in un processo di cambiamento dei commerci già di per sé critico, fungendo da moltiplicatore. La pandemia ha limitato se non annullato la possibilità di incontrarsi fisicamente. Nella fase acuta, ammesso che si potesse raggiungere una qualunque sede dove svolgere un meeting, fra quarantene in andata e in ritorno, voli a singhiozzo e altro, 1 giorno valeva, nella migliore delle ipotesi, 2/3 settimane di limitazioni. Senza contare il rischio di contrarre la malattia. Le conference call sono state un ottimo succedaneo per quanto concerne la fase di approfondimento e messa a punto dei progetti, ma quando si è arrivati alla fatidica firma su un documento in cui ballavano molti zeri, la necessità di essere face to face con l’interlocutore è esplosa. Guardare negli occhi la persona a cui stai affidando un incarico importante, avere il conforto di una presenza fisica, di una voce che con sicurezza si prende un impegno, non è sostituibile. L’empatia, che inutile negarlo, ha un ruolo nella negoziazione, subisce il fattore tecnologico. Quindi, tutto rinviato a tempi migliori. Nel frattempo, la guerra: alcuni dei progetti su cui ho iniziato a lavorare prima della pandemia sono localizzati nell’area del Caucaso, in particolare Mar Nero. Non credo sia necessario aggiungere altro. I tempi migliori tardano ad arrivare. Ampliando lo scenario, però, vorrei aggiungere una ulteriore considerazione. Pandemia e guerra hanno notevolmente modificato le modalità di fruizione del prodotto turistico. I costi di produzione sono cresciuti, alterando anche il target di riferimento. Succede così che alcuni investitori internazionali si stiano prendendo una pausa di riflessione, sospendendo i progetti in corso o rinviandone l’avvio di nuovi, in attesa che finisca la guerra e che lo scenario internazionale si normalizzi, ma soprattutto in attesa del nuovo assetto che avrà la domanda di turismo. Alla luce di questi fenomeni temo, comunque, che il ritorno agli equilibri pre-pandemia e pre-guerra sia abbastanza improbabile, se non in tempi molto lunghi.

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