La vita davanti a sè. Di Sabina Fornasari

È un po’ come essere Danny Boodman T.D. Lemon Novecento, il pianista sull’Oceano. Lui il mondo lo vedeva passare un po’ alla volta sulla nave, dalla quale non era mai sceso. Io il mondo lo vedo passare un po’ alla volta, da Ponte dei Mari o da Corso Italia, i due lunghi boulevard che attraversano i padiglioni del quartiere fieristico in cui lavoro. Lui osservava le persone, sfiorando con le dita la tastiera del pianoforte a coda nella grande sala da ballo della nave. Io osservo la gente, sfiorando con le dita la tastiera del portatile in un anonimo open space o correndo zizzagando tra la folla per raggiungere la fermata del treno. E, spesso, come dice De André, vado in direzione ostinata e contraria. Certo, è tutto un po’ meno poetico, ma io sono una che la poesia la vede dappertutto. E, così, mentre mi mescolo tra la folla degli espositori e dei visitatori vedo mondi. A volte penso di essere ormai in grado di capire il tipo di manifestazione fieristica in svolgimento, soltanto guardando la gente. Ci sono mondi di persone che hanno le scarpe belle e alla moda. Mondi di persone che indossano bijou stravaganti e vestiti colorati. Mondi di persone con piumino nero e mani grandi. Mondi di persone tatuate e occhi pieni di passione. È come se ogni mondo avesse un proprio metronomo. Ecco. A un certo punto, le persone di quel mondo iniziano a vibrare tutte nello stesso modo. Tac tac tac. Certo, ci sono eccezioni, ma come nei Soliti Ignoti, anche le persone che non si assomigliano per niente, alla fine sembrano tutti parenti. Se potessi stare per ore, mesi, anni seduta su una delle panchine di ferro di Corso Italia, mi gusterei proprio questo spettacolo interminabile. Prima il silenzio del boulevard vuoto con le foglie cadute dagli alberi che danzano annoiate. Poi i primi muletti e i gruppi di uomini vestiti di nero, con l’elmetto, i pantaloni con le tasche, gli scarponi sporchi di vernice. Si riconoscono e si chiamano tra di loro a voce alta. Mohammed, Alexandru, Ravi. Poi arrivano le signore delle pulizie con il camice giallo e i guanti in lattice. Poi passano gruppetti di giovani belli come i modelli delle sfilate e, c’è sempre, giuro, c’è sempre, una ragazza che cammina da sola con i tacchi alti, la giacca appoggiata al braccio e lo sguardo spaesato È la sua prima fiera. E, alla fine, arrivano loro. Sono tantissimi. E li vedo da lontano in coda ai tornelli. Come stormi, si muovono tutti in sincrono e sanno dove andare e che cosa fare. Prima tutti di qua, poi tutti di là, poi divisi in gruppi omogenei verso direzioni opposte e poi di nuovo in un gruppo compatto verso i parcheggi e la metropolitana. Io sto lì, seduta sulla panchina con i gomiti appoggiati alla spalliera e dirigo la scena con lo sguardo come il regista di un film che si ripete all’infinito. Ciak. Che entrino gli allestitori. Ciak. Che entrino le signore delle pulizie. No tu no. Sei uno steward. Entri dopo. Ecco. Ora. Ciak. E ora spalancate i cancelli. E davanti ai miei occhi sfila la folla compatta e uguale pur nella diversità dei singoli. Qualcuno inavvertitamente mi urta anche, ma non mi vede. Di solito non mi vedono mai. E io sto lì a guardare, aspettando che escano tutti per gustarmi il silenzio, prima di udire di nuovo, in lontananza, l’arrivo del muletto. A volte mi capita di raccogliere una foglia secca portata dal vento e di chiudere gli occhi, sognando di essere davvero Danny Boodman T.D. Lemon Novecento, il pianista sull’Oceano. Sogno e ho tutto il tempo che voglio per farlo. Tanto il treno sarà in ritardo anche stasera.

 

 

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